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Comitato di quartiere

Alessandro Martinelli Centro Diocesano per il Dialogo Interreligioso 2002

Dal dialogo inter-religioso al dialogo intra-religioso:

 

sfida o profezia?

Indice

1. Come premessa

2. Sul concetto teologico di dialogo

3. Il dialogo nasce dalla consapevolezza della fede 

4. In Dio trovano respiro tutti i credenti 

5. Per mezzo dello Spirito è sconfitta la paura

6. L'ottuplice sentiero 

7. Come postfazione

 

1. Come premessa

Oggi ci ritroviamo in più occasioni ad affrontare il tema del dialogo interreligioso; ne siamo attratti, ci sentiamo coinvolti, ma ne proviamo anche tanta paura. Una paura che, come accade sovente, genera con-cetti di difesa più che di incontro; innalza muri e rafforza corazze più che intrecciare relazioni nuove; crea oc-casioni di rigetto più che cercare opportunità di ascolto. Anche tra i credenti. Tutti noi siamo coinvolti in questo processo, sostanzialmente per una causa esterna, ossia perché oggi sempre più popoli si incontrano, donne e uomini vivono l'uno accanto all'altro portando e vivendo espe-rienze diverse. Anche le cosiddette religioni si incontrano in questo modo: la fede non può non essere incar-nata, ossia resa viva da uomini e donne che la vivono. Per questo motivo, l'incontro tra popoli e culture - ogni incontro - diventa occasione di relazioni anche tra i credenti. Questo processo - quando si tratta di mettere in luce le diverse componenti religiose - noi lo definiamo dialogo interreligioso, un processo di relazioni che do-vrebbe mettere in luce quanto di più intimo e di più coinvolgente possa vivere nell'animo umano. Allora, soprattutto in questi nostri giorni, l'esperienza del dialogo diventa indispensabile per rendere vera la Vita stessa; diventa fondamentale se vogliamo condividere una terra che è unica, un luogo che è senza uguali, una fascia di quell'universo che Dio ha creato per tutti gli uomini e le donne di ogni tempo; di-venta essenziale se vogliamo intraprendere un percorso di autenticità e di genuinità nel nostro "dirci" creden-ti, e non sempre, solo per questo termine, riconoscibili. Tutto ciò, però, non può bastare. Per il credente, per chiunque aderisca ad un principio di Vita per il quale valga la pena di vivere, l'incontro con uomini e donne di diversa fede non si può fermare al dialogo interreligioso, ossia non può es-sere "costretto" all'interno di un regime di tolleranza, racchiuso in una relazione di buon vicinato. Ce ne ren-diamo conto spesso, quando i nostri discorsi "scendono" dalla teologia "alta" alla teologia delle "piccole co-se". Quant'è facile sostenere di essere tutti figli di uno stesso Dio, ma quant'è difficile stare insieme - pro-prio come diversi - sul posto di lavoro, nelle strade, in famiglia, a scuola! Per il credente è necessario sviluppare una dimensione molto più ampia, molto più profonda, molto più coinvolgente, oserei dire molto più credente, che non può derivare dall'opportunismo tattico, dall'ineluttabili-tà di convivere con altre fedi, ma esclusivamente dal fatto di essere credente. Ossia, occorre trasformare il dialogo inter-religioso in dialogo intra-religioso, modificando questo dialogo, quasi superficiale, instaurato nella ricerca di possibili vie di incontro per sopra-vivere, in dialogo per una autenticità delle rela-zioni, quindi per con-vivere, ossia per portare ognuno le esperienze, le sensazioni, le emozioni, la Vita dell'altro. Partendo dalla radice delle nostre scelte, la ricerca della Vita, del Bene, della Giustizia, della Verità, ossia dalla ricerca di Dio. Perché questo passaggio? Per il fatto di essere credenti, ossia per il fatto di essere donne e uomini di fede che vivono e che in-tendono vivere la dimensione del credere come una continua inquietudine, come una perenne ricerca, dell'Io e dell'Altro, dentro e fuori di me; per il fatto di essere, solo ed esclusivamente, tutti, soltanto "poveri pellegrini" in viaggio sulle strade della Vita. Si tratta di una ricerca che ci mette in cammino, in sintonia, con l'umanità intera, alle prese sin dai tempi antichi con le domande sulla Vita e sulla Morte, sul Dolore e sulla Sofferenza. Ecco perché il dialogo deve diventare propriamente un concetto teologico, insito nella dimensione stessa della fede, del credere, del vivere una ricerca esperienziale; non può rimanere un concetto puramente pragmatico, solo concreto, legato alla realtà dei fatti: il frutto risulterebbe, come spesso oggi lo è, decisamen-te e unicamente sterile. Paradossalmente, un credente non si può considerare tale, soprattutto oggi, senza sentirsi in dialogo, ossia in relazione, in incontro, in ascolto, ossia vivere la com-passione. Un credente, oggi, ed in modo parti-colare un cristiano, non può che essere un rinnovato, un rivitalizzato, un "forzato della comunione". "Il cristiano certamente è assillato dalla necessità e dal dovere di combattere contro il male attraver-so molte tribolazioni, e di subire la morte; ma, associato al mistero pasquale, diventando conforme al Cristo nella morte, così anche andrà incontro alla risurrezione fortificato dalla speranza. E ciò vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cri-sto, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associato, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale" (Gaudium et spes, 22). A tutti, dunque, è concessa la Grazia della comunione: sta a noi cercarne e rispettarne le formule, il modo, le modalità, per trasformare una fede "di carta" in una fede "di carne". Proviamo allora a cercare di a-nalizzare i motivi di questo passaggio, lasciandoci scoprire - come un'icona - in questo nostro cercare, da un brano biblico tratto dagli Atti degli Apostoli al capitolo 10, sulla storia di Pietro e il primo annuncio della Parola nuova.

 

2. Sul concetto teologico di dialogo

Dagli Atti degli apostoli (10,1-15) C'era in Cesarea un uomo di nome Cornelio, centurione della coorte Italica, uomo pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia; faceva molte elemosine al popolo e pregava sempre Dio. Un giorno verso le tre del pomeriggio vide chiaramente in visione un angelo di Dio venirgli incontro e chiamarlo: "Cornelio!". Egli lo guardò e preso da timore disse: "Che c'è, Signore?". Gli rispose: "Le tue preghiere e le tue elemosine sono salite, in tua memoria, innanzi a Dio. E ora manda degli uomini a Giaffa e fà venire un certo Simone detto anche Pietro. Egli è ospite presso un tal Simone conciatore, la cui casa è sulla riva del mare". Quando l'angelo che gli parlava se ne fu andato, Cornelio chiamò due dei suoi servitori e un pio soldato fra i suoi attendenti e, spiegata loro ogni cosa, li mandò a Giaffa. Il giorno dopo, mentre essi erano per via e si avvicinavano alla città, Pietro salì verso mezzogiorno sulla terrazza a pregare. Gli venne fame e voleva prendere cibo. Ma mentre glielo preparavano, fu rapito in estasi. Vide il cielo aperto e un oggetto che discendeva come una tovaglia grande, calata a terra per i quattro capi. In essa c'era ogni sorta di quadrupedi e rettili della terra e uccelli del cielo. Allora risuonò una voce che gli diceva: "Alzati, Pietro, uccidi e mangia!". Ma Pietro rispose: "No davvero, Signore, poiché io non ho mai mangiato nulla di profano e di immondo". E la voce di nuovo a lui: "Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano".

Il concetto di dialogo come dimensione di fede nasce dal concetto stesso di fede, che noi potremo additare in tutta quella serie di inquietudini, di ricerche, di esperienze che provocano la nostra vita dando ori-gine al "porsi le Domande chiave dell'esistenza". La fede implica una ricerca che pone la relazione alla base di questo cammino. Così il dialogo diventa dimensione di questa fede; anzi, ne diventa l'essenza stessa. Per tutti noi, che condividiamo la Rivelazione di Dio, questa non può essere altro, davvero, che una continua re-lazione, infinita. È un continuo cercarsi, dell'uomo e di Dio, nella speranza di un Incontro, così come ci ricor-da Paolo scrivendo agli Ebrei, poiché "la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono" (11,1). Per i cristiani, inoltre, il Nuovo Testamento non è altro che incontro, relazione pura, e il dialogo con l'altro, con chiunque altro - e soprattutto con l'altro che fa più fatica, con l'altro che è abbandonato, con l'altro che noi non abbiamo ancora compreso, ossia con l'altro vero - diventa esperienza prioritaria di questo "Dio-con-noi", l'Emmanuele. Anche per i nostri Padri il nome proprio di Dio si identificò in amore, o, se si preferi-sce, nell'essere in relazione: così l'essere diventa realmente il contenuto della comunione; anzi, l'essere na-sce dalla comunione. La nostra avventura spirituale non è altro dunque che relazione, e la fede rimane es-senzialmente relazione e non altro: relazione di Dio con l'umanità e relazione degli esseri umani con gli altri esseri umani, al di là delle loro qualità, delle loro provenienze, delle loro storie. E Cristo stesso rimane fonte, principio, fondamento di questo dialogo, esempio concreto di come va-da concretizzata questo tipo di relazione. Si tratta davvero di un passaggio importante perché comporta credere fermamente che la prassi del dialogo sia un principio essenzialmente teologico. Un principio voluto da Dio, un principio nel quale Dio si na-sconde, si rivela; un principio nel quale vi è il contenuto stesso della fede, della ricerca di un Dio che crea, che vive, che si lascia amare sino a "darsi da mangiare" agli altri. Un Dio che plasma uguali tutti gli uomini, che non li divide, che non li separa, che non crea sottospecie o sottocategorie, poiché, dice ancora Paolo scrivendo ai cristiani di Roma, "non c'è che un solo Dio, il quale giustificherà per la fede i circoncisi, e per mezzo della fede anche i non circoncisi" (3,30). Di fronte a noi, oggi, sta allora la visione che apparve a Pietro nella città di Giaffa. Di fronte alla realtà della creazione, ossia di fonte a quanto Dio ha voluto perché uomo e natura traducano il vivere in amore, nul-la si mostra impuro, nulla appare di seconda scelta, di un'altra categoria, poiché "tutto quel che aveva fatto era davvero molto bello", scrive il libro di Genesi (1,31); "cosa buona", traduce il testo della CEI. A conferma di questo, ci è difficile attribuire a Dio il "puro" e "l'impuro", il "dentro" e il "fuori", poiché "tutto e tutti" da Lui sono chiamati a percorrere la strada della Rivelazione. Questo pensiero ci è ben espresso dal Concilio Vaticano II che, al capitolo 13 della dichiarazione Lu-men gentium, scrive: "Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa cattolica unità del popolo di Dio, che pre-figura e promuove la pace universale; a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza". Si, proprio perché, continua ancora il Concilio nel preambolo della Nostra aetate, "i vari popoli costituiscono infatti una sola comunità. Essi hanno una sola origine, poiché Dio ha fatto abitare l'intero gene-re umano su tutta la faccia della terra, hanno anche un solo fine ultimo, Dio, la cui Provvidenza, le cui testi-monianze di bontà e il disegno di salvezza si estendono a tutti". È questo "tutti", alla fine, la misura del nostro esserci. Nessuno può essere allontanato da questo nostro viaggio o chiamato "estraneo", poiché Dio stesso non estranea nessuno. Il preambolo della dichiarazione conciliare Nostra aetate non fa altro che ribadire il concetto chiave che la Scrittura riporta negli Atti, al capitolo 17: "Da un solo uomo Dio ha fatto discendere tutti i popoli, e li ha fatti abitare su tutta la terra. Ha stabilito per loro i periodi delle stagioni e i confini dei territori da loro abitati. Dio ha fatto tutto questo perché gli uomini lo cerchino e si sforzino di trovarlo, anche a tentoni, per poterlo in-contrare. In realtà Dio non è lontano da ciascuno di noi" (17,26-27).

 

3. Il dialogo nasce dalla consapevolezza della fede

Dagli Atti degli apostoli (10,23-33) Pietro allora li fece entrare e li ospitò. Il giorno seguente si mise in viaggio con loro e alcuni fratelli di Giaffa lo accompagnarono. Il giorno dopo arrivò a Cesarea. Cornelio stava ad aspettarli ed aveva invitato i congiunti e gli amici intimi. Mentre Pietro stava per entrare, Cornelio andandogli incontro si gettò ai suoi piedi per adorarlo. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: "Alzati: anch'io sono un uomo!". Poi, continuando a conversare con lui, entrò e trovate riunite molte persone disse loro: "Voi sapete che non è lecito per un Giudeo unirsi o incontrarsi con persone di altra razza; ma Dio mi ha mostrato che non si deve dire profano o immondo nessun uomo. Per questo sono venuto senza esitare quando mi avete mandato a chiamare. Vorrei dunque chiedere: per quale ragione mi avete fatto venire?". Cornelio allora rispose: "Quattro giorni or sono, verso quest'ora, stavo recitando la preghiera delle tre del pomeriggio nella mia casa, quando mi si presentò un uomo in splendida veste e mi disse: Cornelio, sono state esaudite le tue preghiere e ricordate le tue elemosine davanti a Dio. Manda dunque a Giaffa e fà venire Simone chiamato anche Pietro; egli è ospite nella casa di Simone il conciatore, vicino al mare. Subito ho mandato a cercarti e tu hai fatto bene a venire. Ora dunque tutti noi, al cospetto di Dio, siamo qui riuniti per ascoltare tutto ciò che dal Signore ti è stato ordinato".

Dialogare non significa svilire la propria fede, perdere la propria identità, ma, anzi, al contrario, radi-carla nei principi più profondi. Significa "dire Dio" agli altri senza cambiare Dio, ma in una modalità che ogni giorno chiede di essere rinnovata. Significa raccontare Dio con la propria storia, con le proprie parole, con il proprio tempo. Significa sostanzialmente trasmettere il proprio vissuto di fede. Ma per fare questo - potremo dire, quasi banalmente, per dialogare - occorre conoscere, sapere, rac-contare "qualcosa di cui si sa", ovvero scoprire e lasciar scaturire l'esperienza autentica della fede, di quella fede che non sempre abbiamo scoperto, di quella fede che non sempre abbiamo testimoniato, di quella fede che non è ancora nostro reale e autentico patrimonio. Spesso, infatti, confondiamo ancora la fede con il rito, il precetto, la norma, la regola, condensata nel-la famosa affermazione "si è sempre fatto così"; sovente parliamo di fede ma non facciamo altro che trasmet-tere false immagini o apparenti forme che oscurano persino lo scoppio liberante della fede stessa. Una fede che, comunque vadano le cose, ci fa star bene. Siamo dunque chiamati a maturare per giungere davvero a riconoscere le molteplici esperienze che confondono la fede con una religione astratta, armonicamente puli-ta, come tante nostre liturgie esteticamente perfette, lineari, ma vuote al loro interno; che non sanno comuni-care nulla se non la perfezione stilistica. Oggi la tentazione liturgica è più che mai presente nelle nostre as-semblee; anche se il compito del cristiano non è tanto quello di vivere "belle liturgie", quanto di annunciare il Cristo attraverso ciò che egli stesso ha compiuto, ossia "vivere i suoi stessi sentimenti", come scrive Paolo ai cristiani di Filippi (2,5). Tutto l'Evangelo, tutto il percorso di Cristo, tutto il messaggio di Dio contenuto nella Rivelazione non è altro che dialogo, incontro, ascolto, capacità di accogliere, di piangere, di amare, di perdonare. Il termine stesso "Rivelazione" è qualcosa che coinvolge "dal profondo": non può esistere un Dio isolato, senza il luogo in cui rivelarsi: non avrebbe senso; e così non può esistere un uomo che non rivela ad un altro uomo la scin-tilla di Dio: si tratterebbe di una fede vana, fine a se stessa, di una scarna filosofia interessata al raggiungi-mento del bene personale, svuotato dal senso dell'altro. Per questo la Rivelazione diventa la prima esperienza di dialogo. Un dialogo certamente faticoso - come può essere faticoso vivere tra gli uomini - talvolta scoraggiante, come non è stato facile l'annuncio della Buona Novella al mondo. Ma a noi non è forse stato detto di fare altrettanto? Sull'amore saremo giudicati, so-lo e unicamente sull'amore. Che significa riconoscimento, attenzione, percezione dell'altro; quell'altro che con il suo linguaggio mi parla ancora e sempre di Dio. E' triste incontrare ancora oggi donne e uomini credenti, sedicenti cristiani, che incitano alla separa-zione, alla vendetta, all'odio; che sovente non ricordano più nemmeno il nome di Dio, ma che noi lasciamo parlare al nostro posto, attraverso una specie di tacita delega. Quanta attenzione, oggi, al tema religioso dal mondo mediatico! Quanta banalizzazione della ricerca religiosa e del principio del dialogo, affidati a showmen, a giochi a punti, a sterili programmazioni notturne. Per tanti di noi, per tanti cristiani della prima e dell'ultima ora, queste sono le uniche fonti di informazione. Rendiamocene conto! Come credenti noi abbiamo il dovere di stimolare le nostre comunità al credere, ossia all'incontro, sincero e autentico, che deve necessariamente partire dal confronto, ossia dall'approfondimento della propria dimensione di fede, dal radicamento personale e comunitario del proprio credo. A partire da una scelta ra-gionata delle fonti. Dobbiamo ritornare ad essere "servi della Parola", ossia traduttori moderni dell'amore di Dio per il mondo, attraverso una piena consapevolezza della nostra Storia, del nostro Passato, delle nostre Fonti, di-scernendo ciò che è importante per il nostro viaggio e ciò che forma un bagaglio ingombrante: solo in questo modo potremo trasmettere un Evento che va al di là dei tempi. Come uomini e donne non possiamo farcela da soli, siamo tutti coinvolti dal limite umano - "anch'io sono un uomo", ribadisce Pietro a Cornelio - per que-sto ci è indispensabile un supporto di speranza e di fiducia che solo l'Alito di Dio può trasmettere, al di là del-la pochezza degli uomini e delle donne; il vento infatti, "soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito" (vangelo di Giovanni 3,8). È l'avventura di Pietro, il quale di fronte alla norma, alla regola, al richiamo del passato, è chiamato a raccontare la sua esperienza di uomo "alla presenza di Dio", tentando di "rispondere a quelli che chiedono spiegazioni sulla speranza" (1 Pietro 3,15). L'essenza del dialogo è proprio quella della speranza, che supera la legge, "perché nella speranza siamo stati salvati. E se quel che si spera si vede, non c'è più speranza, dal momento che nessuno spera in ciò che già vede" (Romani 8,24). Non c'è dubbio che il cammino è difficile e aspro, pieno di ostacoli e di difficoltà, ma l'asprezza non ci impedisce certo di praticarlo. La crescita della nostra consapevolezza non può limitarsi a ridefinire l'obiettivo, abbassando il tiro a seconda delle nostre esigenze. Troppe volte sentiamo ancora interpretazioni manipolate: "Si, è ben vero che il vangelo dice questo… ma a noi, in questo nostro tempo, siccome questo non è possibile, ci basta fermarci al promuoverne l'idea". Constatiamo tutti che si tratta di un accomodamento che non serve a nessuno: né ai cristiani, perché in tal modo si costruirebbero un vangelo falsificato, né agli altri, perché potrebbero permettersi di affermare che i cristiani parlano bene ma razzolano male.

 

4. In Dio trovano respiro tutti i credenti

Dagli Atti degli apostoli (10,34-36) Pietro prese la parola e disse: "In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto. Questa è la parola che egli ha inviato ai figli d'Israele, recando la buona novella della pace, per mezzo di Gesù Cristo, che è il Signore di tutti.

Solo praticando ciò che la Scrittura ci chiede di fare ogni giorno potremo instaurare una autentica comunità di fratelli e di sorelle. Solo mettendo in atto tutti gli sforzi possibili per garantire la libertà e il rispetto umano, saremo in grado di testimoniare una fede che è, prima di tutto, ascolto, accoglienza, relazione. Abbiamo capito che tutti noi dobbiamo essere consapevoli delle potenzialità e delle difficoltà che na-scono nell'intraprendere questo percorso, non potendo certo ribellarci ad una realtà che è già in atto, ad una condizione sociale che noi, per primi, tra l'altro, abbiamo lentamente provocato e legittimato nel corso della storia; soprattutto a quello che è un preciso disegno del Creatore "che ama tutti quelli che credono in lui sen-za guardare al popolo al quale appartengono" (Atti 10, 23). Dobbiamo puntare allora sulla formazione e sulla conoscenza reciproca, partendo dalla vita di tutti i giorni, dalla base, dai nuclei familiari, dai luoghi di lavoro, dagli ambiti sociali dove la gente vive, ama, crede. Nemmeno eventi cosiddetti prodigiosi o pseudo apparizioni debbono distrarci da quella "sana ferialità" nella quale il Vangelo si è incarnato. Di fronte ad un messaggio scritto per la gente qualunque, anzi, per la gente che vive la difficoltà del vivere, la disperazione della solitudine, l'attesa della solidarietà, il mondo d'oggi sovente cerca di colmare questa ricerca con nuove rivelazioni, nuove "novità". E di fronte alla scelta impegnativa del Vangelo di tutti i giorni sembra molto più facile l'attrattiva dell'una tantum. Ma noi non pos-siamo svilire la Parola, contrattandone i termini con nostre libere interpretazioni, sovente "possesso" di pochi. Dio guarda a quanti compiono il bene, ossia a quanti praticano la giustizia e vivono nel rispetto degli altri, questo sembra ricordarci Pietro in questo brano. Davvero in Dio trovano respiro "tutti coloro che respira-no", senza differenze. E il respiro di Dio ci aiuta ad ampliare la famiglia umana. È l'antica forma, troppo poco valorizzata, del mistico, che crea la differenza con il veggente: il mistico è colui che non sa dare tante indica-zioni, che non può racchiudere la Presenza di Dio in poche categorie umane, che non si lascia afferrare dalla tentazione di "dire tutto"; è un po' come l'innamorato, che trasmette davvero una forte attrazione per l'Amore, ma che, a parole, non sa cosa dire. Al contrario, solitamente il veggente è colui che vede il particolare, che nota la descrizione precisa dell'evento, il colore, il suono, addirittura la precisione oraria della manifestazione. È colui che tenta spesso di rinchiudere questo Alito di Dio in precise e sicure categorie umane. Di fronte a Dio "che non fa preferenze di persone" sembra quasi che oggi tanti credenti sentano la necessità della "preferenza", di essere considerati "davvero" prescelti, favoriti, eletti, formando così un'apposita schiera di "arrivati". La strada della comunione, invece - che è innanzitutto conoscenza e rispetto reciproco - è oggi l'unica alternativa perché il Vangelo non rimanga un vago ideale o un mito esagitato, ma una concreta esperienza di Dio tra gli uomini. Dobbiamo stare attenti a non cadere nella trappola dei muri, innalzando steccati di odio o di amore, magari l'uno accanto all'altro. Si tratta di occasioni che ribadiscono solo e unicamente il "particola-re" rispetto all'"universale", il "solo" rispetto al "tutti", il "preferito" rispetto al "cercato". La strada è quella che invita a puntare ad un'offerta sempre più seria e abbondante di strumenti e oc-casioni di confronto sul nostro essere cristiani, sul nostro rapporto con il Vangelo, sul nostro essere donne e uomini "diversi", in continua relazione gli uni con gli altri. Non sarà altro che incarnare il Vangelo, viverlo, te-stimoniarlo, perché "la vera integrazione chiede di costruire una società capace di riconoscere le differenze senza assolutizzarle e di promuovere una generazione di cittadini formati alla cultura del dialogo" (Giovanni Paolo II).

 

5. Per mezzo dello Spirito è sconfitta la paura

Dagli Atti degli apostoli (10,44-47) Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo scese sopra tutti coloro che ascoltavano il discorso. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si meravigliavano che anche sopra i pagani si effondesse il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare lingue e glorificare Dio. Allora Pietro disse: "Forse che si può proibire che siano battezzati con l'acqua questi che hanno ricevuto lo Spirito Santo al pari di noi?".

Ma perché tutto questo sforzo nel dialogo? Perché proprio noi, in questo momento? Sono queste le domande che oggi minano la nostra povera fede. Povera, perché, al termine degli sforzi comuni, ne perce-piamo in maggior misura la sua fragilità: ci ritroviamo forse con qualche idea in più, forse un po' meno soli, ma non riusciamo ancora visibilmente ad essere insieme su un tracciato unico. Proviamo allora a cercare qualche motivo per tentare di comprendere questo percorso, per tentare di capire quali potrebbero essere i passaggi più importanti. In questi ultimi tempi, stiamo sperimentando come sia significativo l'incontro; assistiamo alla necessi-tà della preghiera comune; comprendiamo anche l'utilità della riflessione a più voci, ma forse non abbiamo ancora capito l'esperienza più importante che deve agire in questo percorso, il confronto. Negare questo si-gnifica negare la fede per lasciare spazio solo alla religione. Accade ancora, anche a noi: assolvendo i pre-cetti, mettendo in pratica le regole, abbracciando le norme spesso ci sentiamo a posto, sapientemente appa-gati. Così, poco alla volta, la religione prende il sopravvento sulla fede per cui l'osservanza della prassi diventa sufficiente per sentirsi tranquilli con la coscienza. Se il dialogo interreligioso rimane a questo livello, il frutto sarà solo ed unicamente sterile, l'incontro subirà i caratteri della convenzionalità, l'abbraccio rimarrà formale, la preghiera diventerà folclore, anche se sul nostro volto comparirà un sorriso di circostanza Ma se l'approccio assume i caratteri del dialogo intra-religioso, a livello di fede, partendo dall'esperienza, dalla ricerca, dall'inquietudine provocata dal credere, non potremo più sentirci tranquilli, ap-pagati, silenziosamente quieti, perché l'incontro diventerà necessario per fede, l'abbraccio per fede diventerà testimonianza, la preghiera diventerà silenzio come "luogo" dell'ascolto di Dio, e sul nostro volto compariran-no i tratti dell'autenticità, non sempre sereni. Nel profondo di ogni avventura spirituale sono nascosti i semi della ricerca, della verità, dell'esigenza di condividere un mondo fatto di segni e di luoghi in cui Dio ancora oggi parla agli uomini e alle donne del nostro tempo. È il confronto. Noi non possiamo permetterci di spegnere questi segni, non possiamo permetterci di oscurare questi luoghi che oggi parlano ancora con la voce dell'Amore; noi non possiamo permetterci di adattare il pensiero di Dio alle nostre esigenze; noi non possiamo permetterci di interrompere il rapporto di relazione, poiché sa-rebbe come se interrompessimo il rapporto stesso con Dio, spegnendo anche il "lucignolo fumigante", come scrive l'evangelista Matteo (12,20). "Come si può impedire che siano battezzati con l'acqua quelli che hanno ricevuto lo Spirito Santo come noi?", afferma Pietro; noi potremo parafrasare dicendo: come si può impedire che ogni uomo e ogni donna, raggiunto dal dono della Speranza, possa cercare ancora? Sono figli di Dio tutti coloro che lo temono, lo riconoscono, lo cercano, e che vivono la giustizia, ossia mettono in pratica la condivisione, la solidarietà, l'amore tra gli uomini. Oggi è così difficile evidenziare il credente e il non credente, poiché la linea di demarcazione tante volte è davvero assai debole. Di fronte a donne e uomini che danno la vita per la Giustizia, che muoiono per la Verità, che offrono il loro tempo, le loro energie, i loro sforzi per la Libertà, non è facile parlare di non cre-denti. Di fronte a uomini e donne che prendono sul serio la loro vocazione, alla vita matrimoniale piuttosto che all'impegno lavorativo, sino a trasformarla in una scelta di vita "fino in fondo", come possiamo parlare di non credenti? Per questo motivo dovremo rivedere le nostre immagini, non solo di Dio ma anche dell'Uomo. E me-ravigliarci. Meravigliarci del dono dello Spirito santo, che permette di parlare lingue nuove, mai abbastanza ripor-tate alla luce: la lingua dell'ascolto, del perdono, dell'amicizia, della sensibilità, dell'attenzione, dell'affetto. Lingue che parlano di una Novità mai compiuta, che libera dalla paura, che sconfigge il timore, che calma l'angoscia. In modo definitivo. Di queste lingue, oggi, ne sentiamo il bisogno. E se le fede non parla queste lingue, a che cosa può servire?

 

6. L'ottuplice sentiero

Dagli Atti degli apostoli (11,1-4) Gli apostoli e i fratelli che si trovavano nella Giudea vennero a sapere che anche gli stranieri avevano ricevuto la Parola di Dio. E quando Pietro salì a Gerusalemme, i credenti circoncisi lo contestavano, dicendo: "Tu sei entrato in casa di uomini non circoncisi, e hai mangiato con loro!". Allora Pietro raccontò loro le cose per ordine fin dal principio.

La paura non è ancora stata sconfitta, sembra, nemmeno tra gli apostoli. La scelta di elezione, la de-finizione di chi è straniero, l'accusa di mangiare - ossia di condividere una cosa importante - con i "non cir-concisi", è tutt'altro che superata. Anzi, mai come in questi tempi sono aumentati i recinti, i muri, le separa-zioni, il "mio" e il "tuo". Allora proviamo a cercare qualche piccola strategia per "raccontare" con la vita queste cose, "per or-dine, fin dal principio". Proviamo a intravedere alcuni atteggiamenti che forse potrebbero aiutarci a condivide-re l'esperienza della crescita umana e spirituale insieme. Proviamo a fare nostra la vita di tutti i giorni e a compiere delle scelte, alcune semplici, che non chiedono chissà che cambiamenti, altre forse più impegnati-ve, che richiedono una maggiore attenzione. Proviamo ad indicarne otto, come otto sono i "giorni nuovi" che scaturiscono dalla Pasqua, come otto sono le linee che formano il primo sacramento che scaturisce dall'acqua della fonte. Otto atteggiamenti ne-cessari per mettere in atto il confronto come metodo: - pulire le radici; per rendersi consapevoli delle proprie origini culturali, sociali e religiose; della propria storia, del percorso vissuto, sapendo discernere la Tradizione dalle tradizioni, la Fede dagli opportunismi, os-sia mettendo in atto ciò che il Concilio Vaticano II chiama la "gerarchia delle verità". Non sarebbe male che come scelta "operativa" ogni cristiano mettesse mano al testo della Scrittura, togliendolo dalle polverose li-brerie per farlo diventare davvero un testo proprio. L'ignoranza, la non conoscenza, sono le cause principali del nostro non star bene. - riconoscere la presenza di Dio nella storia; per evitare di rinchiudere la presenza amorevole e tene-ra di Dio in una catalogazione che noi stessi, talvolta, abbiamo creato a nostro uso e consumo in termini di difesa. In poche parole, significa riconoscere che Dio è presente nella storia dell'umanità ben prima dell'arrivo dell'umanità stessa, e che quindi non spetta agli esseri umani detenere gli spazi e i tempi di Dio. - anteporre il primato di Dio a tutto il resto: "il primato di Cristo sulla Chiesa, quello della grazia sulla morale, quello della persona sulle strutture, quello dell'interiorità sul fatto esteriore", come scrive Carlo Maria Martini. Se al centro del nostro percorso rimane sempre l'attenzione per la Persona umana, dovremo avere il coraggio di cominciare a verificare le nostre scelte, le nostre strutture, le nostre regole, non tanto per cam-biarle in se, quanto per verificarle alla luce del loro "servizio". - praticare l'Amore di Dio, per testimoniare sempre e ovunque la misericordia e la gratuità; diffonden-do l'immagine di un Dio che accompagna l'umanità come un Padre amorevole, non come un dominatore dell'umanità. Proviamo a verificare, in noi e nelle nostre comunità, qual'è l'immagine che abbiamo di Dio, con quale linguaggio lo descriviamo; probabilmente ci accorgeremo che non sempre diamo il giusto peso a ciò che proclamiamo con slancio: "fratello, sorella, comunità", sappiamo cosa vogliono dire e cosa richiedono a noi? O si tratta di termini ormai obsoleti che recitiamo meccanicamente? - respirare nella tenda, per mantenersi in perenne dinamismo, guardando avanti verso quel Compi-mento che, anche inconsapevolmente, un giorno ci renderà completamente liberi e definitivamente fratelli. Il percorso del credente ha dinanzi a se l'immagine profetica di un uomo che si è fidato totalmente di Dio ri-schiando sulla sua stessa pelle: Abramo. È l'immagine di colui che non sta fermo, che non costruisce una dimora stabile, ma che lascia ciò che possiede; è colui che ci insegna la sobrietà, l'essenzialità, anche nel bagaglio della fede; è il contrario di chi afferma "si è sempre fatto così", ma, anzi, è colui che non si stanca mai di cercare, con coraggio, e di mettersi in gioco in prima persona, non delegando ma prendendo su di se le proprie responsabilità. - pensare insieme, per vivere realmente la sinodalità, tante volte invocata, mettendo in pratica quello spirito di fraternità e di servizio che dovrebbe contraddistinguere la vita stessa dei cristiani nella quotidianità. È sempre più difficile, oggi, mettere in atto quello "stare insieme" di cui parlano i vangeli. È sempre più diffici-le perché significa porre al centro non tanto la "mia" vita quanto la "nostra" vita, ossia la mia vita legata alla tua e a quella degli altri. Lavorare insieme, pensare insieme, scoprire insieme è oggi una delle imprese più ardue: proviamo a pensare come viene gestita la "quotidianità del sacro". Pensiamo al valore che attribuiamo oggi ai "consigli", sempre meno consigli e sempre più risoluzioni già deliberate. Con quale spirito noi possia-mo rivolgerci all'altro "lontano da noi" se non riusciamo nemmeno e prendere in considerazione l'altro chia-mato ad essere "con noi" nel cammino di fede? - rimanere affascinati, per lasciarci invadere dal Mistero uscendo così dalla frenesia quotidianità; per lasciarci abbracciare dalla sobrietà, dalla gratuità, dal silenzio, rientrando così in noi stessi e quindi in Dio. Tutti noi sentiamo oggi il bisogno di riscoprire una dimensione che il ritmo frenetico del tempo non ci permet-te di vivere. Vogliamo sapere sempre tutto, conoscere tutto, poter dichiarare tutto, nella vita come nella fede. Se potessimo, ci piacerebbe entrare direttamente nel pensiero stesso di Dio, nella sua Mente, così da carpir-ne i segreti e poterli sciorinare a nostro utilizzo. Ma la ricerca dell'Assoluto è essenzialmente Mistero, di fron-te al quale l'unica arma umana è il silenzio, il potere dell'assenza. - riscoprire l'ottimismo, per vivere la consapevolezza di essere autentici testimoni della Vita, risco-prendo la festa e la gioia di una Fede che libera, che apre, che rende nuove le cose vecchie: "ecco, faccio una cosa nuova, proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?", scrive Isaia (43,19). Se la fede non è in grado di far innamorare una persona, forse non possiamo nemmeno dire si tratti di fede. Innamorarsi dell'Assoluto significa trasformarsi in cercatori, in pellegrini, in forestieri, mai sazi di Bene e di Bellezza, mai sfamati di Veri-tà e di Giustizia, mai logorati dalla Ricerca e dalla Strada. Riscoprire l'ottimismo può significare allora dare il giusto peso all'invito rivoltoci dal Risorto: "Non abbiate paura!".

L'ottuplice sentiero è la via obbligata di un percorso, non facile, pieno di insidie, ma che va vissuto prima di tutto in noi stessi, nella nostra dimensione di fede, nella nostra esperienza di vita quotidiana. L'ottuplice sentiero è, alla fine, la via che porta alla responsabilità di essere, per dirla con Bernhard Haering, "liberi e fedeli in Cristo" sulle strade dell'Incontro. Credo, allora, sostanzialmente, che dovremo recuperare sul serio il senso della "teologia delle piccole cose", ossia la ricerca di Dio attraverso quelle piccole attenzioni che, nella vita di ogni giorno, ci rendono veri. È per questo motivo che, soprattutto oggi, non possiamo più segnare il percorso del dialogo come "un insie-me di cose da fare". Il dovere del dialogo, scriveva infatti Carlo Maria Martini, "non scaturisce da opportuni-smi tattici, ma dalla fedeltà a Dio e all'Uomo". A questa fedeltà noi dobbiamo rispondere. Fedeltà a Dio, nel ricercare e nel vivere tutto quello che egli ci chiede e ci indica nelle sue vie. Sa-pendolo cogliere e ascoltare là dove egli si fa trovare. "Era come un gran vaso pieno d'acqua, e anche a bere resta sempre pieno, e anche a bere resta sempre sete... Pregare era abitare dentro Dio e dentro ogni cosa abitata da lui. Pregare esigeva tanto tempo; non soltanto fermarsi quasi su un'isola felice, ma navigare len-tamente, in quel mare di Dio, in quel mare del mondo, per berne le onde, una per una, come fa un'ape con i fiori. E un'ape ha bisogno di tempo per volar lenta sulle corolle aperte... " (Adriana Zarri). Fedeltà all'Uomo, nel mettere al centro di questa nostra ricerca di Dio la speranza, la compassione e soprattutto il senso di responsabilità che, come scrive Dietrich Bonhoeffer, "poggia su un Dio che esige il libe-ro rischio della fede nell'azione responsabile, e che promette perdono e consolazione a colui che così diven-ta peccatore".

 

7. Come postfazione

Non ci sono conclusioni da trarre. Anche se la tentazione di chiudere in bellezza è sempre presente. Non ci sono conclusioni perché questa strada non ha limiti. Possiamo però sottolineare ancora qualcosa. Tutti noi sentiamo oggi la necessità di recuperare un aspetto sempre più tralasciato in questa nostra ricerca di fede: la sobrietà. È giunto il tempo di dare vita a poche parole, ma di renderle vive davvero; è giunto il tempo di smet-terla di parlare di "fraternità", ma di cercare invece di praticarla; è giunto ormai il tempo di crescere nelle cose fondamentali e di dire "basta" a tutto ciò che vorrebbe imprigionare la fede; è giunto il tempo di trasformarci in protagonisti, superando la dimensione di spettatori liturgici; è giunto il tempo di abbandonare tante parole umane per adottare quella "parola ch'egli ha diretta ai figli d'Israele, portando il lieto messaggio di pace per mezzo di Gesù Cristo. Egli è il Signore di tutti. E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute". (Atti 10,36-43). È giunto il tempo di vivere l'essenzialità, che libera ma irrobustisce, che porta via il superfluo ma ren-de più forte la Linfa. Ecco, dunque, in che cosa consiste la profezia del dialogo: se non significa svendere la propria fede, se non significa svilirla, se non significa lasciar perdere una parte della storia per venir incontro agli altri, dia-logo significa unicamente ridare voce alla speranza. Secondo la "teologia delle piccole cose", dialogo, per i cristiani, non significa altro che crescere e maturare nel cristianesimo; per gli ebrei, crescere e maturare nell'ebraismo; per i musulmani, crescere e dialogare nell'islam; per i buddisti, crescere e maturare nel buddi-smo. E solo in questa crescita, continua, potrà avvenire l'incontro con il Volto di Dio, che vedrà il compimento definitivo quando "Egli sarà tutto in tutti" (1 Corinzi 15,28). Ecco perché allora il dialogo, per un credente, diventa necessario: perché trasforma la religione in profezia. E perché solo la profezia sa rendere davvero nuovo e credibile ogni incontro.

FINE

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